La fotografia nel cinema è un elemento fondamentale: ogni singolo secondo i nostri occhi, mentre guardano un film, colgono almeno 24 fotogrammi, tutti insieme. Solo partendo da questa frequenza di riproduzione di fotografie riusciamo ad avere l'illusione del movimento. Spesso, però, la fotografia non viene adeguatamente apprezzata oppure è poco stimata.
Eppure, ogni singola scena nasconde determinate scelte sulla composizione dell'inquadratura, sulla disposizione delle luci, sul controllo dei movimenti della macchina da presa, sulla scelta dell'obiettivo da utilizzare ecc.
Perciò non è difficile capire perché l'immagine sia stata così tanto studiata e declinata innumerevoli volte nel cinema, e proprio per questo ha subito molte evoluzioni: dai primi film muti con fotogrammi incerti e un po' saltellanti, alle pellicole in bianco e nero degli anni seguenti come Psyco di Alfred Hitchcock. E che dire poi di Stanley Kubrick, fotografo prima che regista, che nei suoi film ha fatto della fotografia, a distanza di decenni, la base su cui poggiare la propria cifra stilistica: 2001 Odissea nello spazio o Barry Lyndon tra gli altri. Negli ultimi anni tra gli altri sono stati ampiamente apprezzati da critica e pubblico gli esempi di Denis Villeneuve con Blade Runner 2049, o Alejandro Iñárritu con The Revenant.
Dietro la fortuna di queste e altre pellicole si cela, oltre alla bravura e al talento degli attori, il lavoro di una importante e fondamentale figura all'interno della troupe cinematografica: il direttore della fotografia. Il responsabile dell'impatto visivo delle immagini sullo spettatore.Proprio per questo, da marzo fino a maggio il Centro Audiovisivi propone una nuova vetrinetta, dedicata ai direttori della fotografia, cercando di puntare i riflettori su un lavoro spesso troppo al buio e ignorato.Per iniziare in grande, la scelta è ricaduta su due maestri contemporanei della fotografia cinematografica: Emmanuel Lubetzki e Roger Deakins.
Ai loro nomi rimangono strettamente legati alcuni tra i più importanti titoli degli ultimi anni: Gravity, Birdman, Non è un paese per vecchi, Le ali della libertà solo per citarne alcuni.
Credo che ogni arte visiva, per poter veramente chiamarsi tale, abbia bisogno di esprimersi in uno specifico spazio. Essa deve avere una specifica composizione per poter divenire una forma dell'espressione di ogni artista. Tutto questo probabilmente è incominciato molto tempo fa, nel mito della caverna di Platone. [...] I prigionieri di Platone non stanno guardando la realtà, come credono, ma una rappresentazione della realtà. Questo è esattamente ciò che sono cinema, fotografia, pittura. Esse non sono una copia della realtà ma soltanto una rappresentazione della realtà stessa.
A legare Apocalypse Now, Reds e L'ultimo imperatore, film così diversi per racconto e rappresentazione, c'è la visione di un grande professionista dell'immagine: Vittorio Storaro.
Vinse l'Oscar alla migliore fotografia per tutti e tre i lungometraggi, ma già il debutto nel mondo del cinema con Giovinezza, giovinezza gli valse nel 1970 il Nastro d'argento per Migliore fotografia in bianco e nero. Nei suoi lavori propose un'uso della fotografia come scrittura della luce, realizzando un sistema di visoni fatto di luci e ombre immateriali, che non riproduce la realtà ma la reinventa. Nella sua carriera collaborò con i grandissimi del Cinema e contribuì di certo a rendere le loro pellicole immortali.
Dopo un inizio di carriera come fotografo di effetti speciali, la figura di Robert Burks si legò in particolar modo ad Alfred Hitchcock. Burks iniziò a contribuire alle atmosfere ansiogene dei film del cineasta inglese, attraverso la composizione dell’inquadratura e l’utilizzo delle luci, a partire dal 1951, con il film Delitto per delitto - L’altro uomo. Il suo sodalizio durò fino al 1964. In Delitto per delitto è presente uno degli esempi più importanti di collaborazione e innovazione tra i due autori: uno degli assassinii presenti all’interno del film viene mostrato attraverso il riflesso di una lente degli occhiali della vittima. Nei thriller della Paramount a cui lavorò utilizzò inoltre un colore densamente contrastato. In La finestra sul cortile forzò i limiti del Technicolor, ottenendo una densità cromatica profondissima. Burks collaborò anche con Billy Wilder in L’aquila solitaria. Ottenne quattro nomination all’oscar e ne vinse uno per il film Caccia al ladro.
Spagnolo, naturalizzato francese, Nestor Almendros rivoluzionò la fotografia nel cinema e diede un forte contributo all’estetica della Nouvelle Vague. Lavorò principalmente con François Truffaut e Éric Rohmer. Utilizzava un tipo di fotografia naturalistica e riusciva a creare forti emozioni tramite poche e dosate pennellate di luce. Altra importante collaborazione fu quella che ebbe con la New Hollywood, lavorando tra gli altri nel film I giorni del cielo , una delle prime pellicole dirette da Terrence Malick, per il quale vinse l’oscar alla miglior fotografia. La fotografia utilizzata in quest’opera di Malick richiama particolarmente la pittura fiamminga. Le scene notturne vennero illuminate tramite un falò. Nella filmografia di Almendros sono inoltre presenti dei documentari, tra cui due di denuncia contro il regime cubano.
Star del bianco e nero degli anni Trenta e Quaranta, fu l'operatore prediletto di attrici dalla difficile fotogenia, come Joan Crawford e Bette Davis, che illuminò in diversi capolavori. Per Figlia del vento ottenne la prima delle sette nomination, ma vinse l'unico Oscar della sua carriera in coppia con Ray Rennehan per il colore di Via col vento. Haller seppe piegare le esigenze luministiche del primitivo Technicolor tripack alle raffinate cupezze del bianco e nero adatte a una vicenda profondamente mélo come quella del romanzo di Margaret Mitchell.[*]
Il cinema espressionista tedesco era caratterizzato da atmosfere irreali e allucinatorie, legate al mistero e al soprannaturale. Non a caso questa avanguardia sarebbe stata l’iniziatrice del cinema horror. Il gabinetto del dottor Caligari, diretto da Robert Weine, della cui fotografia se ne occupò Willy Hameister, fu uno tra i primi esempi di questa avanguardia cinematografica. Lo stile visivo di quest’opera è caratterizzato da un’illuminazione fortemente contrastata che richiama la pittura espressionista e che conierà la definizione di caligarismo.
Fritz Arno Wagner fu uno dei più grandi maestri di luce all’interno del cinema espressionista tedesco. Utilizzava le zone d’ombra per rappresentare la tematica del mistero, come in Nosferatu – Il vampiro, diretto da Murnau e in M – Il mostro di Dusseldorf, diretto da Fritz Lang. Inoltre riuscì a far collimare nei film di Georg Wilhelm Pabst lo stile dell’espressionismo tedesco con quello del documentarismo.
Karl Freund, altro grande direttore della fotografia del cinema espressionista tedesco, collaborò con numerosi cineasti tra cui Carl Theodor Dreyer, Friedrich Wilhelm Murnau, Fritz Lang e Walter Ruttmann. La sua tecnica portò all’estremizzazione gli effetti chiaroscurali e creò le basi identitarie dell’avanguardia espressionista. Lavorò con Fritz Lang in Metropolis, grande capolavoro del cineasta viennese. Per questa pellicola i due autori utilizzarono l’effetto Schüfftan “che permetteva la creazione di mondi virtuali a costi molto bassi rispetto alle scenografie. Esso consisteva nell'uso di cartoni disegnati che venivano proiettati e ingigantiti con un gioco di specchi, fino a divenire sfondo di una parte dell'inquadratura, mentre in un'altra si muovevano gli attori in carne ed ossa, magari inquadrati da lontano. Nacquero così intere città fantasma e architetture vertiginose”[1]. Freund collaborò anche con la cinematografia americana in film come Margherità Gauthier, diretto da George Cukor, e Fiori nella polvere, diretto da Mervyn LeRoy. Il suo stile contribuì a rendere ben distinto l’universo horror creato negli anni '30 dalla Universal, di cui alcuni film furono diretti dallo stesso stesso Freund.